Nando Gentile racconta alla Retina d’Oro la sua pallacanestro, passione di famiglia
Abbiamo raggiunto di nuovo Nando Gentile a cui abbiamo consegnato lo scordo dicembre la Retina d’Oro che ci ha rilasciato questa intervista. L’ex top player ci ha parlato di sé, della sua famiglia , e del basket di ieri e di oggi.
In casa Gentile, la palla a spicchi sembra essere una malattia trasmessa geneticamente. Da Ferdinando, ex top player, e Guido, alla sorella Immacolata, e oggi i figli Stefano ed Alessandro. Anche se tutto iniziò per caso quando…
Una medaglia d’Argento ai Campionati Europei del 1991 di Roma e una d’Oro ai giochi del Mediterraneo del 1993, 132 partite giocate in Nazionale. Ricco carnet di vittorie per Ferdinando Gentile che lo scorso dicembre ha ricevuto il premio Retina d’Oro sezione “Le Dinastie del Basket” .
Fratello, sorella e ora anche i suoi due figli. La palla a spicchi è nel Dna dei Gentile?
In realtà è nato tutto per caso. Mio papà era un elettricista, mia madre una casalinga. Nessuno sportivo quindi né tantomeno un cestista. A portare il basket in famiglia è stato Guido, il mio fratello maggiore, che per primo ha giocato a pallacanestro, cavalcando l’onda della nuova passione per questo sport che si stava insediando negli anni ’70 a Caserta e coinvolgeva i ragazzi delle scuole. Guido per primo entrò in un club e portò anche me. Anni dopo è stata la volta di mia sorella Immacolata nella squadra femminile di Caserta.
E adesso i suoi figli, Alessandro e Stefano. Casualità anche per loro?
Il più grande, Stefano, che adesso gioca a Reggio Emilia, ha iniziato quando io ero ad Atene a giocare con il Panathinaikos. Sia lui sia Alessandro frequentavano lì la scuola americana, ovviamente si giocava molto a basket e hanno iniziato così a muovere i primi passi. Per Alessandro, che allora era un bimbo grassottello, era anche un modo piacevole per dimagrire. Lui ha iniziato quando io sono andato a Udine, gli è piaciuto e ha proseguito su quella strada. Per questo è stato per me un piacere ricevere la Retina d’Oro, un riconoscimento importante per me e per la mia famiglia che ha dato tutto per questo sport, non facile. Vuol dire che abbiamo lasciato un segno e stiamo dando qualcosa alla pallacanestro.
Stefano ha subito recentemente un infortunio piuttosto serio e Alessandro ha da poco terminato la sua avventura greca. Incidenti di percorso…
Gli infortuni, purtroppo, fanno parte del gioco e io ne so qualcosa. Fortunatamente quello di Stefano si è poi rivelato meno grave di quanto si pensasse. Quanto ad Alessandro, oggi quello che dobbiamo fare con lui è un lavoro su fiducia e autostima. Può sfruttare il momento per prepararsi bene lavorando sia sulla parte fisica sia su quella tecnica per tornare ad alti livelli.
Il basket che giocano i suoi figli è lo stesso che giocava lei?
Quella di oggi è una pallacanestro un po’ diversa, molto più fisica rispetto a prima. E non è l’unica cosa che è cambiata nel corso degli anni. Una volta il talento, anche quello dei giovani emergenti, era molto più rispettato e tutelato rispetto a oggi. Il giovane esordiente era di proprietà della società, quindi un bene da tutelare e proteggere. C’era anche una sorta di affetto, di stima per chi cresceva nella società e, da parte del giocatore, un profondo attaccamento alla squadra. Oggi tutto questo non esiste più. Sono tutti professionisti, devono rendere, se non producono subito risultati vanno da un’altra parte. Tanti ragazzi validi si perdono anche per questo motivo a mio parere.
In 20 anni di professionismo quale è stato il suo momento più bello e quale il più difficile?
I momenti più belli coincidono con la vittoria, espressione massima del lavoro e dei sacrifici di uno sportivo. Sicuramente il campionato vinto a Caserta nel ’91 è stato uno dei momenti più importanti, il più particolare, perché è arrivato dopo un lavoro di dieci anni. All’epoca quella squadra era composta per la quasi totalità da giocatori campani. Crescere insieme dal settore giovanile e arrivare in Serie A è stata una bellissima avventura. Ma ci sono stati anche altri bei momenti: la vittoria della Coppa Campioni con il Panathinaikos nel 2000 così come lo scudetto nel ’96 a Milano. Ora che ho 50 anni, vedere i vari trofei ha un sapore particolare; mi scorre davanti agli occhi tutta la mia carriera, la mia vita da sportivo.
I momenti più brutti sono quelli degli infortuni. Io ho subito cinque interventi chirurgici. Questi sono certamente i momenti più bui. Sei solo con il tuo preparatore atletico che cerchi e speri di ritornare a giocare e riprendere nel modo migliore, ma non ne hai la certezza.
Nel basket, così come in altri sport, in questi anni vediamo campioni che sembrano vivere un’eterna giovinezza. A cosa è dovuto questo fenomeno?
Oggi ci sono metodologie di lavoro, strutture e capacità differenti e si va a lavorare su un fisico diverso. Tanti giocatori della mia epoca e di quella precedente smettevano prima di giocare perché avevano subito infortuni. Oggi gli atleti sono preparati e assistiti secondo tecniche scientifiche, c’è un minor minutaggio anche se si giocano più partite. Tutto questo comporta un minor logorio fisico e l’atleta è più longevo.
Ci sono giovani che stanno emergendo nel panorama del basket italiano?
Forse non siamo ai livelli di certi periodi fortunati, però ci sono due o tre giocatori in squadre come Reggio Emilia o Milano che promettono molto bene. Si sta lavorando proprio per questo, perché diventino risorse importanti e non solo dal punto di vista fisico o tecnico, ma per aiutarli a imparare a fare squadra. Cosa non facile, perché mettere insieme tanti stranieri con culture diverse, modi di lavorare diversi, non è facile.
Che vita è quella di un ex campione?
Una vita assolutamente normale. La cosa più importante è cercare di staccare mentalmente con il mondo che c’è stato prima che ha portato tante gratificazioni, ma anche parecchio stress, infortuni. Negli anni del professionismo non ho potuto godere al massimo la famiglia e gli amici. adesso finalmente posso recuperare. Sono responsabile del settore giovanile a Milano e ogni tanto alleno i bambini più piccoli. E naturalmente è bello vederli entusiasti dello sport che io amo.
Cosa si augura per il basket?
Tutto il meglio naturalmente, ma la situazione non è per nulla semplice. La verità è che ora la pallacanestro italiana vive un momento molto difficile. Basta metà Milano per vincere il Campionato, cosa questa che non fa per nulla bene allo spettacolo. Ormai, bella da vedere, dopo la pallacanestro americana, è rimasta quella europea. Abbiamo molto da imparare dall’America dove c’è spettacolo e guadagno per tutti. ( a cura di Alessandra Cipolla)